FIAT CHRYSLER: FINE DELLA GEOGRAFIA INDUSTRIALE (E. Mattinzoli) febbraio 2014

Il Taylorismo, organizzazione scientifica del lavoro meglio conosciuto come Fordismo, nasce negli Stati Uniti (ma è anche modello produttivo socialista) all’inizio del ‘900, nelle fabbriche di Henry Ford e diventa, oltre che industriale, un modello sociale, non solo in termini di partecipazione al mercato del lavoro, ma anche in termini di modello familiare di consumo.

Questo modello industriale si caratterizza nella concentrazione di grandi masse di lavoratori nella grande fabbrica, nella prevalenza numerica di occupati nel settore secondario su quelli occupati nel settore primario e terziario, e coincide con lo sviluppo dei sistemi di welfare.

Alcuni autorevoli economisti, indicano con una certa convinzione nel modello Fiat Chrysler un ritorno al fordismo, tesi sulla quale, a mio avviso, risultano evidenti alcune differenze. Il legame tra capitale e forza lavoro era, agli inizi del ‘900, di reciproca dipendenza; le due esistenze, tra chi acquistava lavoro e chi vendeva lavoro, erano legate e interdipendenti, al punto da non poter esistere l’una senza l’altra.

La fabbrica, ovvero la collocazione locale/territoriale, era l’elemento che circoscriveva capitale e lavoro impedendo ad entrambi di spostarsi. Gli orizzonti lavorativi erano, per l’operaio della grande fabbrica, motivo di certezze: non era inusuale che al padre in pensione, subentrasse il figlio. Il giovane apprendista che iniziava a lavorare nella Ford negli USA come quello della OM a Brescia, poteva essere quasi certo di poter concludere la propria vita lavorativa nella stessa azienda.

Il nuovo modello sociale del post fordismo invece, si caratterizza e si differenzia soprattutto con una crescente individualizzazione della società, ovvero l’allentarsi dei legami con il gruppo che nelle società premoderne era costituito dalla famiglia. I rapporti tra lavoratori sono sempre meno stretti e solidali di quando si lavorava gomito a gomito alla catena di montaggio, ciò a causa dell’incertezza generata dalla flessibilità dei contratti, sempre più a breve termine.

I dipendenti di qualsiasi fabbrica fordista erano certi di poter concludere una trattativa con buone probabilità di successo, nella consapevolezza che il capitale non aveva alternative.

Oggi non è più così. Il capitale è in grado di abbandonare il tavolo negoziale, smobilitando e trasferendo altrove i propri macchinari, dove le condizioni (non solo del costo del lavoro) siano più convenienti.

Il capitale, non più caratterizzato da programmi di lunga durata, è sempre più extraterritoriale e di conseguenza slegato dalla realtà locale, in una sorta di “fine della geografia industriale”, come la definisce il filosofo francese Paul Virilio.

E’ del tutto evidente che la vicenda Fiat impone una riflessione, che tenga conto della necessità di garantire certezze ai lavoratori, scongiurando al tempo stesso il disimpegno delle aziende manifatturiere nel nostro paese.

Il compito del governo, è quindi quello di attirare capitali, creando le condizioni migliori per la libertà d’impresa, sostenendo e rilanciando l’industria manifatturiera, al fine di evitare di essere in futuro una colonia economica di altri paesi, con la consapevolezza che le aziende non si trattengono per decreto!

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